Il Tribunale di Roma, con l’Ordinanza del 18-27 agosto 2020, ha accolto il ricorso promosso da un ristoratore avverso il locatore dei locali commerciali, disponendo la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile-maggio 2020 e del 20% per i mesi da giungo 2020 a marzo 2021, nonché la la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un’esposizione debitoria di € 30.000.
Il Giudice Capitolino ha fondato il proprio ragionamento sul principio della buona fede oggettiva nella fase di esecuzione del contratto, ritenendo che anche in assenza di una specifica clausola di rinegoziazione, l’eventuale squilibrio contrattuale venutosi a creare per cause non imputabili alle parti, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, determina l’onere (se invocato) in capo alle stesse di rinegoziarne il contenuto.
Il Giudice evidenzia, altresì, che alle medesime conclusioni si perviene anche qualificando la fattispecie come peculiare ipotesi di impossibilità della prestazione della locatrice resistente di natura parziale e temporanea attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati per l’attività di ristorazione, idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto.
“in base al testo normativo dell’art. 1467, comma 3, c.c. e all’orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte sul punto, la rettifica delle condizioni contrattuali “squilibrate” può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite. Tuttavia deve ritenersi che lo strumento della risoluzione giudiziale del contratto “squilibrato” volta alla cancellazione del contratto, nella misura in cui quest’ultimo non contenga alcuna clausola di rinegoziazione derogatrice della disciplina legale, soprattutto per i contratti commerciali a lungo termine, possa in alcuni casi non essere opportuna e non rispondente all’interesse della stessa parte che, subendo l’aggravamento della propria posizione contrattuale, è legittimata solo a chiedere la risoluzione del contratto “squilibrato” e non anche la sua conservazione con equa rettifica delle condizioni contrattuali “squilibrate”. Certamente la crisi economica dipesa dalla pandemia Covid e la chiusura forzata delle attività commerciali – ed in particolare di quelle legate al settore della ristorazione – devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale; invero, nel caso delle locazioni commerciali il contratto è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva, e segnatamente nel caso di specie per lo svolgimento dell’attività di ristorazione. Ciò posto, si ritiene che pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell’antico brocardo “rebus sic stantibus”, debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.) … Alle medesime conclusioni si perviene qualificando la suddetta fattispecie come peculiare ipotesi di impossibilità della prestazione della locatrice resistente di natura parziale e temporanea (…), attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati per l’attività di ristorazione, idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto, e che dà luogo all’applicazione del combinato disposto degli articoli 1256 c.c. (norma generale in materia di obbligazioni) e 1464 c.c.. (norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive). Le conseguenze di tale vicenda sul contratto – ferma la circostanza che alcuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale – non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione: si veda in tal senso Cass. 9816/2009) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex art. 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone). Trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita”